Omelia XVII Domenica T.O.-A

(Mt 13,44-52)

 


Ave Maria!

E’ molto doloroso ammetterlo, ma è purtroppo evidente che, tra noi, molte persone hanno abbandonato o stanno abbandonando la fede cristiana che, per qualche anno, magari, hanno frequentato e creduto con una certa regolarità. Per giustificarsi di questo abbandono, diversa gente. talvolta, si rifugia dietro gli scandali della Chiesa o degli uomini di chiesa, mentre altre, più numerose, non dicono niente di questa loro scelta che qualcuno ha chiamato, giustamente, uno “scisma sommerso”: se ne vanno, semplicemente, per stanchezza delle loro abitudini religiose o perché la fede sembra ormai aver poco da dire alla loro vita. Quasi per provocazione, vorrei anch’io dire che, sotto certi aspetti, capisco queste persone. Forse farei lo stesso anch’io. In effetti, se una persona non ha scoperto, almeno un po’, quell’esperienza di Dio che viveva Gesù, davvero tutto sarebbe una noia che non porta da nessuna parte. Si direbbe che non ne vale la pena. Perché è tristissimo incontrare tanti così detti cristiani le cui esistenze non sono segnate dalla “gioia di credere”, dallo stupore o dalla sorpresa di Dio che, ad onta di tutte le difficoltà umane, continua ad essere presente nella loro piccola o grande vita. Sono persone che non hanno trovato quel “tesoro” della vita che è proprio la vita di Dio!
Il fatto sicuro è che, tra i cristiani anche di queste ultime generazioni, domina il falso criterio che, per sentirsi cristiani, basta andare a Messa, fare qualche puntata in parrocchia, avere amico il parroco o il prete di turno, partecipare a qualche opera buona, e così via. Ed è qui, un giorno o l’altro, la tentazione di abbandonare la fede, almeno nella maggior parte dei casi. Poi ci possono essere altre motivazioni più inconfessabili, ma che potremmo definire nient’altro che semplici “pretesti” di comodo. La fede cristiana, oggi, non gode di un consenso sociale e culturale di grande rilevanza e perciò non è forse più soddisfacente rivolgersi ad altro? Molti giovani, infatti, vivono tutto questo perché vogliono partecipare alla corsa delle “magnifiche sorti e progressive” (Leopardi) e non vogliono essere esclusi, emarginati, diventare insignificanti agli occhi dei “vincenti” sociali.

Ma la verità è un’altra, ben più profonda e seria: non si può essere cristiani senza curare e coltivare la propria vita interiore che non è affatto una realtà marginale o superflua (adatta solo ai preti o alle suore), bensì la condizione imprescindibile per restare aperti alla sorpresa e alle “visite” di Dio!

Tuttavia, bisogna aggiungere, che questo fenomeno degli “abbandoni” non è cosa nuova, nella millenaria esperienza cristiana. Oggi, magari, è più in evidenza perché se ne impadroniscono i sociologi o gli intellettuali che, il più delle volte, lasciano intendere ai loro adepti, curiosi e ingenui, che, stando così le cose, non vale proprio la pena di continuare in una strada che è decisamente “perdente” sotto il profilo sociale e culturale. Insomma, volenti o nolenti, siamo imbarcati a forza nel villaggio globale, - anzi diremmo sui social -, dove ciò che conta è l’apparenza, la rilevanza sociale, la notizia o, meglio, l’ultima notizia che fa tendenza per la massa, così sensibile, proprio perché massificata, alla propaganda. E allora, non c’è niente là, nella fede, nessun tesoro di vita da scoprire, meglio puntare su sé stessi e basta. Rassegnarsi, cioè, a vivere senza senso, perché la vita è un colossale imbroglio e niente più. Infatti che cosa c’è di vivo, di bello e di buono in tanti intellettuali, scrittori, opinionisti che vivono e scrivono unicamente per la loro carriera e per restare a galla nel “mercato” della carta stampata o telematica?


Anche al tempo di Gesù, a dire il vero, succedeva la stessa cosa: non tutti i suoi ascoltatori erano entusiasti del suo progetto di vita. In molte persone sorgevano non pochi dubbi, interrogativi, perplessità e dato il fatto che Gesù insisteva proprio sulla “vita interiore”, sulla vita dell’anima, sui desideri profondi del cuore umano. Era ragionevole seguirlo? Dove voleva portare? Non era una pazzia fidarsi di un sedicente “maestro” di fede che, oltre tutto, non contava nulla ed era emarginato quanto loro? Sono le domande, o almeno alcune domande, di quella povera gente della Galilea, esclusa da tutto, talvolta anche dalla religione ufficiale. Ma sono anche le domande,- badiamo bene -, di tutti coloro che incontrano Gesù ad un livello un po’ profondo. E così Gesù raccontò ( e racconta anche a noi) due brevi parabole per “sedurre”, in senso buono, coloro che restavano indifferenti. Voleva, in altre parole, seminare in tutti (e anche dentro di noi) un interrogativo decisivo e fulmineo: non ci sarà nella vita un “segreto” che non abbiamo ancora scoperto? Abbiamo scoperto che cosa significa per noi la vita di Dio? Al di là del fatto che sentiamo parlare di questo Dio da tante bocche religiose, troppo religiose al punto da ridurlo ad una sorta di Babbo buono? Conosciamo in profondità questa presenza che, in apparenza, non si lascia vedere, ma che è scritta, a lettere di fuoco, nel campo misterioso del nostro essere e vivere? E che ci inquieta, anche se dolcemente, ci segue e quasi ci attira, nostro malgrado? Bisognerebbe leggere e rileggere, a questo proposito, le straordinarie Confessioni di sant’Agostino, - che non era affatto un ingenuo della bell’acqua o un improvvisato opinionista in vena di saggezza per dirci che “tutto andrà bene” -, per convincersi che, alla fin fine, siamo costretti a fare i conti con questa Presenza di Dio nella parte più nascosta e più inafferrabile del nostro cuore. Un mistero nel mistero della nostra povera esistenza!

In ogni caso, tutti gli ascoltatori di Gesù compresero a volo la parabola di quel povero agricoltore che, mentre stava scavando in una terra non sua, trovò un tesoro nascosto in qualche giara. Non stette a pensarci due volte, perché era l’occasione della sua vita e non voleva perderla. Vendette tutto quello che aveva, pur di impossessarsi del tesoro nascosto. Oppure, nel caso del ricco mercante, allorché scopre una perla di inestimabile valore, per cui vende anche lui tutto per potersi impossessare di quella perla.

In realtà, Gesù vuole comunicare la scoperta della autentica esperienza di Dio: è a questo tesoro nascosto che Gesù paragona il suo Regno, mentre il fortunato protagonista della scoperta figura come l’operaio del Regno. Il tesoro era nascosto e l’operario non lo sapeva. Era sepolto in un suolo che pensava di conoscere, che aveva lavorato instancabilmente, non senza qualche profitto, certo, ma senza paragone con il valore del “tesoro”. Così, il Regno, per il quale faticava, lo calpestava tutti i giorni senza riconoscerlo. Quando, peraltro, la grande santa Teresa d’Avila cercava di convincere le sue figlie spirituali, le Carmelitane Scalze, della necessità di coltivare sempre, senza stancarsi, la vita interiore con Dio, - e lei sapeva bene cosa diceva: per vent’anni aveva cercato Dio e non era riuscita a trovarlo come il “tesoro” della sua vita -, le venne in mente, geniale com’era, una bella immagine: la vita dell’amicizia con Dio è come un pozzo profondissimo da cui non è facile attingere l’acqua per quanti sforzi facciamo. E anche qui sapeva quello che diceva, per sua sofferta e dolorosissima esperienza!
Voleva dire che toccava a Gesù farle scoprire il modo di attingere l’acqua da quel profondissimo pozzo che resisteva a tutti i suoi sforzi, perché nessuno, con i propri mezzi, lo può fare da solo. Teresa era molto religiosa, in quei vent’anni di ricerca di Dio, ma non si era radicata ancora in Gesù per quella ricerca che tanto la inquietava e la tormentava. Teresa non aveva capito, allora, quello che Gesù stesso aveva detto:il mio Regno non è di questo mondo! Ed è quando capisce che, senza Gesù, non è nulla che inizia il suo folgorante cammino di fede, amore, speranza.
Questo tesoro che è la presenza di Dio, cosciente, amata, sentita al di là di tutto, non è solamente nascosto, è anche sepolto in profondità nel campo del nostro cuore. Ora, dicevano splendidamente i Padri della Chiesa, questo campo del cuore deve essere da noi lavorato e scavato a lungo, non per qualche tempo. E’ vero che le sue stratificazioni, a livello di superficie, ci sono familiari: è in esse, infatti, che abitualmente dimoriamo – nei nostri desideri, buoni o cattivi, nei nostri progetti, nei sistemi di pensiero, nelle nostre tentazioni o nello scoraggiamento. Noi vi abitiamo, ma il guaio è che, per anni e anni, restiamo lì fermi, senza appunto scavare in profondità il nostro cuore più nascosto. E’ la che il Signore ci attende ed anzi ci rivolge un appello segreto, irresistibile. Solo che lo fa attraverso Gesù che, fuori da ogni metafora, è Colui che ci comunica il suo Spirito, lo Spirito Santo, che geme in noi, in tutti i nostri gemiti e che si fa sentire in noi quando preghiamo con tutta la forza di cui siamo capaci: “Abbà, Padre!”. Quell’acqua profondissima del pozzo e di cui parlava Teresa d’Avila è, dopo tutto, il contatto intimo, voluto e cercato con Gesù stesso! Perché nessuno, dotto o ignorante, proprio nessuno, può andare verso il Padre, conoscerlo come Padre, se Gesù non lo attira nella profondità del campo che è, innanzitutto, il nostro cuore. Amen.


don Carmelo Mezzasalma
San Leolino, 26 luglio 2020

 

 

 
 
 
 

 

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